Persone, prima che pazienti

David Cranston condivide la sua esperienza nel prendersi cura delle persone a tutto tondo.

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Trovare il tempo di interagire in maniera profonda con i pazienti può essere molto difficile, in ambito ospedaliero.

Prendersi del tempo per approfondire ed ampliare le nostre interazioni ci aiuta ad andare più in profondità nei bisogni dei nostri pazienti, a vederli come esseri umani a tutto tondo, non semplicemente come dei casi clinici.

Porre attenzione all’aspetto umano dei nostri pazienti ci aiuta a migliorare non solo le cure mediche, ma anche il supporto fornito.

Una settimana prima che scrivessi questo articolo, ero nel mio ambulatorio di urologia con un professore in visita dal Giappone, quando entrò un anziano signore di 93 anni accompagnato dalla figlia. Ero combattuto, non sapevo se fare oppure no quella che solitamente è la mia prima domanda, dopo essermi presentato, agli uomini oltre i 90 anni. Ma considerando che ormai ero giunto a una buona conoscenza del mio collega giapponese, ed eravamo diventati amici, decisi che l’avrei fatta.

“Cosa ha fatto durante la Guerra?” chiesi.

Mi rispose che aveva prestato servizio sui sottomarini e che il suo compito era di proteggere i convogli Artici e del Nord Atlantico. Il mio collega giapponese non disse nulla, visto che “ora siamo tutti amici”. Andammo avanti a chiacchierare e nacque una bella conversazione su cosa volesse dire lavorare nei sottomarini durante la Seconda Guerra Mondiale, sulle difficoltà attraversate non solo da lui, ma anche dai convogli Artici che doveva proteggere, nei quali erano stati in servizio altri miei pazienti. Su quelle imbarcazioni era necessario rimuovere il ghiaccio accumulato all’esterno (a temperature ben al di sotto dello zero) per evitare di rovesciarsi sotto il suo peso, e solitamente i soldati non indossavano nemmeno il giubbotto di salvataggio perché, in caso di siluramento, le probabilità di essere salvati erano davvero poche e la morte arrivava molto più velocemente senza giubbotto di salvataggio.

Certo queste non sono conversazioni che si possono fare con tutti i pazienti dell’ambulatorio, ma ci possono essere occasioni per farlo, specialmente se come in questo caso si trattava di una visita di controllo in un paziente del tutto asintomatico dal punto di vista urologico.

Una settimana dopo, cioè oggi, mi è arrivata una lettera proprio da quell’uomo, nella quale diceva che era stata la visita più piacevole che avesse mai fatto in ospedale. C’era anche allegata la copia di una lettera scritta a mano e spedita a sua madre da Re Giorgio V nel 1918, riguardo il rilascio di suo padre, che era stato prigioniero di guerra dopo essere stato catturato durante la Battaglia di Messines a Ypres nel 2017.

I pazienti sono anche persone ed un giorno tutti i medici saranno a loro volta dei pazienti. Guai ai medici che tolgono l’umanità dalla medicina. Al giorno d’oggi, nella pratica clinica, è fin troppo facile guardare un computer, un tracciato o una TAC e ignorare il paziente.

William Osler era un canadese che, dopo aver studiato alla McGill University, divenne uno dei padri fondatori dell’Università Johns Hopkins e successivamente professore di Medicina a Oxford. Quando morì nel 1919, il Lancet lo descrisse come “la più grande personalità nel mondo medico del suo tempo”. Era il tipo di uomo che portava gli studenti al letto dei pazienti per imparare da questi ultimi e per parlare con loro, dimostrando che le cure mediche compassionevoli e la scienza non solo erano compatibili, ma erano entrambe necessarie, e che un attento esame obiettivo era fondamentale per una corretta diagnosi. “Se ascolti il paziente, ti darà la diagnosi”. Portò la scienza nella formazione in medicina ed ottenne grande rispetto e ammirazione da colleghi, studenti e pazienti.

Osler non si dimenticava mai dei pazienti, e anche noi faremmo bene ad imparare da lui. Conosciuto per diverse citazioni, una delle più importanti recita che “è più importante conoscere il paziente che ha la malattia, che non la malattia che ha il paziente”.

In tutto il Paese al giorno d’oggi si è iniziato a organizzare incontri multidisciplinari, in cui i problemi dei pazienti vengono discussi da un gruppo di medici, chirurghi, oncologi, radioterapisti, radiologi e patologi, per studiare il miglior piano terapeutico. In questi incontri però la persona più importante, cioè il paziente, non è presente. Molto spesso, specialmente nel trattamento del tumore prostatico, si tende a concludere con “Rimangono aperte tutte le opzioni; discuterne con il paziente”. Sebbene non sarebbe appropriato far partecipare il paziente a questi incontri, anche perché solitamente si discutono casi relativi a pazienti diversi, è di fondamentale importanza che tutti i partecipanti si rendano conto che manca la persona più importante.

Come dottori, non siamo solo medici e insegnanti, ma siamo anche un esempio e un modello per chi ci circonda. Quando siamo in ospedale e insegniamo agli studenti, siamo sotto osservazione per come trattiamo non solo i nostri pazienti ma anche gli altri Operatori Sanitari. I nostri atteggiamenti fanno capire quali siano i nostri valori nella vita, i nostri obiettivi e ciò in cui crediamo. La nostra testimonianza cristiana fatta a parole sarà vanificata se la nostra testimonianza a livello pratico non le corrisponde.

Il più grande riconoscimento che William Osler ricevette in vita sua fu la sua reputazione tra gli studenti, i quali dicevano che “se vuoi vedere le migliori doti del primario, devi osservarlo mentre si trova al capezzale di un povero e anziano malato cronico, perché sono proprio questi pazienti che tirano fuori il suo meglio”. Se solo fosse così anche per tutti noi che lavoriamo nelle professioni sanitarie al giorno d’oggi! Ricordiamoci che prima o poi anche noi saremo in uno di quei letti, probabilmente, e non più in piedi di fianco ad essi.

Uno dei miei vecchi responsabili di ricerca, ora Pastore in una chiesa locale a Chipping Norton, è stato recentemente invitato in Cina a parlare ad un congresso di medicina riguardo la sua transizione da medico a pastore. E lì ha parlato del “grande medico”, un termine ben conosciuto nella medicina cinese. Il più Grande Medico di tutti i tempi scelse dodici discepoli che lo seguissero nei suoi tre anni di ministero. Per la maggior parte del tempo, i dodici discepoli vivevano insieme a lui, viaggiavano con lui, mangiavano con lui e parlavano con lui. In questo modo avrebbero imparato tanto dalle sue azioni, quanto dalle sue parole. Avrebbero potuto vedere come impiegava il suo tempo. Avrebbero visto come, quando era particolarmente stressato, pregava. Amava pregare. Quei tre anni di ministero furono frenetici, tra l’insegnamento, le guarigioni e le predicazioni: con le persone, con gli amici, con i discepoli, con le folle e con i nemici. E meno tempo aveva a disposizione per la preghiera, più diventava forte e necessario il suo desiderio di mantenere salda la sua relazione con il Padre. Più forte la tensione del momento, più tempo passava alla presenza del Padre. È difficile pensare che quella sera fosse salito sulla collina con l’intenzione di passare tutta la notte in preghiera. Piuttosto, pregando, probabilmente perse la concezione del tempo stando alla presenza del Padre, e a fatica notò che il sole si faceva largo tra le colline annunciando l’alba. Tuttavia i suoi discepoli lo videro tornare completamente rinfrescato, rinnovato, dopo questo periodo in comunione con suo Padre.

Sappiamo bene come Gesù trattava le persone a cui predicava e di cui si prendeva cura. Ascoltò attentamente Iairo, e come lui anche molte altre persone, senza lasciarsi distrarre dalla folla che lo circondava e senza guardarsi intorno alla ricerca di qualcuno di più importante o più interessante da assistere. Gesù offriva amore incondizionato ai bisognosi. Si rifiutò di giudicare la donna adultera, ma guardò avanti anziché indietro, verso un futuro migliore per lei e verso un cambiamento nel suo stile di vita. Vide gli ostacoli alla crescita spirituale in Scribi e Farisei, così come nel giovane ricco per il quale il denaro e i beni materiali erano la cosa più importante. Sopportò pazientemente la pigrizia, l’ignoranza, la paura e il fallimento, e non abbandonò mai i suoi discepoli. Piuttosto, offriva loro delle sfide, si confrontava con loro e li correggeva. Era delicato nel suo operato, ma sapeva anche essere forte quando ce n’era la necessità. E offre un ottimo modello da seguire per tutti noi che operiamo nelle professioni sanitarie, prendendoci cura del prossimo.

Perciò, durante le nostre giornate in ospedale, in ambulatorio, in sala operatoria, ma anche mentre interagiamo con i nostri colleghi, ricordiamoci che ogni paziente che abbiamo in cura e ogni collega sono persone per le quali Cristo ha dato la Sua vita.

Il Professor David Cranston lavora presso il dipartimento di Scienze Chirurgiche dell’Università di Oxford.

Articolo scritto da David Cranston.

Link all’articolo originale: https://www.cmf.org.uk/resources/publications/content/?context=article&id=26926

Traduzione a cura di Giulia Dallagiacoma